“Riuscire a influenzare i desideri degli altri e garantirsi la loro acquiescenza tramite il controllo dei loro pensieri e desideri non è forse la prova di potere più lampante che esiste?”
In The Manchurian Candidate di Jonathan Demme (Usa, 2004), il potere – quello vero, invisibile e irresponsabile – decide di costruirsi un candidato alla Presidenza del Paese indicato come unica superpotenza del mondo globale, gli Stati Uniti. ‘Costruirsi’ è qui letterale: al predestinato viene infatti impiantato un microchip che ne consente la manipolazione diretta e perfetta. Il potere visibile, quello del capo della superpotenza, viene in verità determinato da un potere più profondo e meno identificabile: anche il potente per eccellenza dei nostri giorni è dunque dominato. Figuriamoci quelli che potenti non lo sono, neppure prima facie. Questa profondità del potere, non sempre facile da cogliere, è l’oggetto di studio privilegiato da Steven Lukes di cui Vita e Pensiero pubblica la seconda edizione, ampliata da due nuovi contributi, dell’ormai classico Il potere: una visione radicale.
Precisiamo subito che rispetto al film evocato, la tridimensionalità del potere di cui parla Lukes non consiste affatto in un metodo così invasivo come l’innesto di un microchip. E neppure è dovuta all’azione intenzionale di qualcheduno. Proprio l’enfasi sul comportamento intenzionale di un agente nei processi decisionali, è anzi il primo elemento che Lukes critica rispetto alla visione uni-dimensionale del potere elaborata, tra gli altri, da Robert Dahl. Questi considera A avere potere su B “quando riesce a far fare a B qualcosa che B altrimenti non farebbe”. In questo caso, il potere corrisponde dunque al prevalere di una decisione in questioni chiave sulle quali è osservabile un conflitto tra preferenze politiche diverse.
Ma – osserva Lukes – non tutti arrivano ad elaborare preferenze politiche, non tutti sono attori nei conflitti, non tutte le questioni suscitano conflitto. A fare la differenza è la terza dimensione del potere. Il potere è tale se non si esercita nei soli processi decisionali, ma anche nel controllo dell’agenda delle questioni sulle quali prendere decisioni. Di più, il potere non ha neppure bisogno di decidere intenzionalmente tale agenda. Il vero potere è una capacità, non un esercizio effettivo. A chi domina si offre acquiescenza, anche senza che egli faccia qualcosa in particolare per garantirsi tale acquiescenza (minacce, sanzioni, mobilitazioni).
La terza dimensione del potere consiste, infatti, nell’influenzare o determinare i desideri altrui. “Riuscire a influenzare i desideri degli altri e garantirsi la loro acquiescenza tramite il controllo dei loro pensieri e desideri non è forse la prova di potere più lampante che esiste?” (p. 38)
Come si possono influenzare o determinare i pensieri e desideri altrui? “Il giudizio degli uomini può essere influenzato in molteplici e quasi incredibili maniere” osservava Spinoza, ma decidendo di farlo di punto in bianco neppure il più potente dei potenti vi riuscirebbe. Le strade per giungere a questo obiettivo sono infatti storicamente e socialmente lastricate. Il potere, nella sua tridimensionalità, si fonda su una naturalizzazione di quelle che sono invece forme di vita storiche: far passare come naturali abitudini, norme, costrizioni che sono in tutto e per tutto socialmente determinate – questa è la capacità del potere. Far sì che le donne si percepiscano come donne e formino di conseguenza il carattere femminile che le vuole subordinate all’iniziativa decisionale dell’uomo – questa è la schiavitù che John Stuart Mill denunciava nel Ottocento e che Martha Nussbaum rinviene ancora oggi in modo eclatante nelle donne indiane, la cui socializzazione al ruolo subordinato dura tutta la vita. Sottrarsi a questa profondità del potere è quasi impossibile.
Una impossibilità legata anche alla difficoltà di riconoscere i propri interessi reali. Difficoltà dovuta non semplicemente ad una falsa coscienza determinata da un’ideologia dominante (da sottolineare il confronto che Lukes istituisce con Gramsci), ma alla stessa molteplicità, conflittualità ed eterogeneità degli interessi degli attori sociali: per questo la falsa coscienza “è sempre incompleta e limitata” (p. 160). Proprio il riconoscimento della poliedricità degli interessi indebolisce però il tentativo di Lukes di rinvenire “una base empirica per identificare gli interessi reali” e lo porta ad utilizzare il metodo del controfattuale significativo: a cercare di rintracciare gli interessi chiedendosi cioè come gli agenti agirebbero se la situazione fosse un’altra. Un metodo questo che evidentemente si fonda su giudizi di valore, i quali delineano le caratteristiche della situazione altra, e che finisce spesso con l’attribuire agli attori interessi che essi non vogliono o comunque non possono riconoscere come propri.
Un metodo che, d’altra parte, serve a Lukes per riconoscere una qualche forma di coscienza agli attori sociali, poiché – per dirla ancora con Spinoza – “per quanto efficaci possano essere stati gli artifici usati in quest’opera di soggezione, non si giunse mai ad impedire che gli uomini si rendessero conto che ciascuno è in fondo ben dotato di una sua capacità di giudizio, e che tanti sono i modi di pensare quanti sono i gusti” .
Non è perciò del tutto impossibile sottrarsi alla profondità del potere.
Proprio questa capacità di resistenza apre, a livello teorico, uno iato con la “clamorosa esagerazione” di un certo Foucault e, a livello pratico, una prospettiva di emancipazione da un potere così profondo e radicato.
Lukes dedica ampio spazio in questa seconda edizione al confronto con il pensiero del filosofo francese. Ne distingue due fasi: la prima legata alla teorizzazione del potere disciplinare e del biopotere, la seconda al concetto di governamentalità. Mentre il primo Foucault è ultraradicale e arriva a cogliere il soggetto come mera costruzione prodotta dall’assoggettamento al potere e dunque come incapace di sottrarsi ad esso, il secondo invece riconosce che “il soggetto si autocostituisce in modo attivo attraverso le pratiche del sé”. Mentre la prima fase è interpretata come una esagerazione che empiricamente non trova riscontri e politicamente esclude qualsiasi possibilità di cambiamento dei rapporti di potere, la seconda invece si accorda all’impostazione dello studioso americano e garantisce dei margini di azione, la possibilità cioè di dissentire.
A nostro avviso, anche il primo Foucault potrebbe tornare utile a pensare, e ri-pensare, la profondità del potere contemporaneo. Oggi le cronache ci parlano sempre più di manipolazione dei corpi e la riflessione filosofica si incentra sempre più sulla biopolitica. Forse vale la pena di non escludere l’eventualità che i processi di socializzazione, che ci abituano a determinati desideri, passino anche se non in primo luogo dai nostri corpi, da quei grovigli irriducibili che ci costituiscono. Questo non comporta una determinazione lineare e irredimibile: da un lato, infatti, proprio la sedimentazione storica delle pratiche nel corpo oppone una certa inerzia a processi manipolativi intenzionali e puntali, dall’altro lato, questa stessa storicità non può tradire se stessa e farsi necessità, datità immutabile. Sicuramente però molte delle manifestazioni dei corpi devono qualcosa ai contesti nei quali hanno luogo: tali contesti generano o almeno favoriscono un certo modo di parlare, di stare in piedi, di camminare, di guardare ecc..
Lukes, riprendendo il concetto di habitus da Pierre Bourdieu, riconosce che “il tema dell’interazione tra la società e il funzionamento chimico, fisico e fisiologico del corpo, e in generale del rapporto tra il campo sociale e quello biologico, è affascinante e ancora poco conosciuto” (p. 153). Naturalmente, indagare il potere esercitato sui corpi, la sua ‘incorporazione’, non significa trascurare quelle che Lukes chiama “influenze culturali discorsive”, dalla socializzazione durante l’infanzia agli insegnamenti religiosi ai mass media. Ma proprio a Foucault dobbiamo il legame concettuale tra ordini discorsivi e corporeità.
The Manchurian Candidate, nella sua rappresentazione fantapolitica, solleva l’attenzione anche su questo, sul fatto cioè che il potere si eserciti sui corpi, passi attraverso di essi. Questo non da ora, evidentemente. Ma il connubio tra corpo e tecnoscienza del nostro presente può farci cogliere anche questo abisso del potere. E senza divenire consapevoli delle pratiche che iscrivono i nostri corpi, come parte dei processi di socializzazione a cui ci richiama Lukes, non si può sperare di cambiare le loro direzioni e i segni che ci tracciano addosso.
Ma………….
Opporsi all’esistente, all’omologazione, al conformismo, alla massificazione, è questo che sembra dirci Foucault. Resistere significa allora esistere, opporsi al potere, ribaltare, contrastare, criticare ciò che in prima istanza appare banale e scontato. “Rifiutare quello che siamo” implica condurre una battaglia su due fronti: uno esterno e uno interno. Esternamente, rifiutare i modi di pensare convenzionali; internamente, non accettarsi per quello che siamo, essere pronti a rimettersi in discussione.
L’ultimo Foucault ipotizza quindi un uomo nuovo, un nuovo soggetto capace di affrancarsi e reinventarsi. C’è però un’ambiguità di fondo, o meglio un silenzio di Foucault su questo nuovo individuo, come un tassello mancante. Lo ha illustrato in maniera chiara Stefano Berni 16, che critica Foucault in quanto decostruisce il soggetto sulla scia di quanto avevano fatto Nietzsche e, dopo di lui, i francofortesi. Ma, a differenza di Nietzsche, per il quale il sé è dato dal corpo, dalla sensualità, dagli istinti e dalle passioni, Foucault sembra continuare a negare questa corporeità: infatti egli critica la scuola di Francoforte proprio su questo punto, sostenendo esplicitamente che non può esservi una pretesa essenza umana o naturalità 17.
Eppure Foucault, dopo aver negato questa essenza umana o corporeità, ha poi, di fatto, sempre lavorato sui temi del corpo e della sessualità. Qui sta la sua ambiguità, in quanto “studioso di una corporeità che nega”. Foucault afferma che il soggetto costruisce se stesso attraverso l’esperienza, trasformandosi incessantemente senza mai raggiungere un fine, una pretesa essenza umana. Egli allude ad un nuovo soggetto umano, senza però indicare quali dovrebbero esserne i requisiti positivi. Forse non compie questo passo perché teme di dover indicare dei requisiti “essenziali” del soggetto. Ma allora perché resistere al potere? Se al fondo non c’è niente, pura esperienza, mera histoire événementielle, a che scopo trasformarsi? Senza una corporeità che reclama i suoi bisogni, per quanto indotti, per quanto mascherati, che senso ha un soggetto che si trasforma incessantemente?
Credo sia lecito ritenere che lo scetticismo radicale di Foucault gli impedisca di affermare esplicitamente le istanze del corpo contro i meccanismi del potere. Sostenendo che il potere piega i corpi addestrandoli, rendendoli docili e incasellandoli, egli avrebbe dovuto negare ogni tipo di resitenza e di libertà. Ma non è così, ed egli afferma a più riprese che dove c’è potere c’è resistenza, e che le relazioni di potere possono essere ribaltate; che la liberazione è possibile, purchè sostenuta dalle pratiche di libertà.
Foucault si pone quindi sulla stessa scia di Nietzsche e della scuola di Francoforte: entrambi avevano sottolineato l’importanza del corpo come resistenza al potere, e l’effetto violento delle lotte per addestrarlo e addomesticarlo. Il silenzio di Foucault non impedisce di pensare che la vedesse allo stesso modo. E, d’altra parte, se è vero che il compito della filosofia non è quello di fornire certezze o verità assolute, ma di aprire delle problematiche e indicare tutt’al più delle linee di fuga, nulla vieta di ritenere che la resistenza al potere possa ripartire oggi proprio dai corpi.
Da oggetto privilegiato del potere, a strumento principale di resistenza. Non è forse questo che intendeva Foucault quando parlava della possibilità sempre esistente di ribaltare le strategie del potere?
Ma è proprio qui che casca l’asino.
Nella cultura odierna domina solo la RAPPRESENTAZIONE DEI CORPI, da Nietzsche per primo in poi, fino a Foucault stesso e altresì tutti i loro epigoni attuali , sebbene tutti bravissimi a cianciarne, ma poi DISINCARNATI come nessun altro.
Proprio come li vuole il Potere.
Ma del resto il Diavolo, principe di questa terra, non è forse un puro spirito per eccellenza ?
E, viceversa, Cristo, non si è soprattutto INCARNATO ?
Ma si sà…hanno occhi ma non vedono, hanno orecchie ma non sentono, soprattutto quei “ricchi di spirito” degli intellettuali ma tutt’altro che beati, essendo ciò notoriamente a pannaggio dei “poveri di spirito” ma “ricchi” della carne !!! …ça vais sans dir !!
http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2007-10/lukes.htm
http://lgxserver.uniba.it/lei/filpol/ktbo/31.html