LA SOCIETA’ STERILE

( di Gabriella Rouf )

Se certi aspetti della trattazione di Illich non ci soddisfano è perché in quella fase (anni 80) il rivendicazionismo femminista estremizzava l’identità femminile investendo nel genere un complesso di spinte ideologiche interpretate in funzione antimaschile. Per eccesso di carico, la fase successiva è stato il rendersi indipendenti di queste spinte dall’originaria base egualitaria, fino ad assorbire in sè l’identità di genere, infine dissolvendola: ed è proprio questo che profeticamente Illich prospettava, un sessismo derivante dalla uniformità dei sessi.

Esso è pertanto una conseguenza del femminismo ideologizzato che confondendo ruolo sociale e identità, ha svenduto al miglior offerente (la società materialistico-consumista post laica) l’essenza identitaria della femminilità e la sua stessa integrità fisica(1).

Tendenza che poteva allora apparire paradossale, ma che invece è ormai sotto i nostri occhi. È acquisizione del tutto razionale che la verità dell’essenza identitaria femminile ontologicamente intesa, è l’identità materna, come predisposizione, accoglienza, percezione della vita come incarnazione(2): la personalità femminile è strutturata intorno a questo nucleo, che precede l’effettivo ruolo materno e – al contrario di ogni determinismo biologico – contiene il principio di libertà di interpretare e testimoniare la maternità in forme diverse da quelle generative.

Tanto che, nel caso opposto, la donna che rinuncia al figlio, che abortisce, fosse solo oscuramente, per un attimo, vive la verità del rapporto con l’essere. È probabile che ne derivi una coscienza intimamente persuasa ad essere per un altro essere, a prospettare il futuro in una sequenza di vite concrete, ciascuna fragile, preziosa e nuova, mentre si potrebbe attribuire alla maschilità una predisposizione collettiva e cooperante (e quindi, gerarchizzante): la complementarietà dei caratteri (comunque li si definisca) è stata comunque assai favorevole alla specie. In ogni caso la storia umana ha mostrato fino ad oggi un numero limitato di varianti storiche del rapporto tra i generi, prevalentemente in forma asimmetrica a sfavore delle donne, anche se la preponderanza data nell’analisi storica agli aspetti politici e militari (chiaramente più documentabili) ha evidentemente forzato la lettura in questo senso.

L’insufficienza dell’analisi emerge infatti in forma di interrogativo storico, nella difficoltà di definire e misurare forze profonde ed efficaci – su piano qualitativo e quantitativo – che hanno agito nella storia (e non solo nella cronaca della mentalità, del costume, delle istituzioni familiari ecc): un esempio è la diffusione rapidissima del Cristianesimo nell’area mediterranea e nell’impero, di cui le donne sono state protagoniste e organizzatrici, e nel giro di una generazione, quindi non nell’avvicedamento familiare. E altri esempi si possono trovare –sempre considerando quantità/qualità, e prescindendo da figure eccezionali, comunque numerosissime- in settori assistenziali, educativi, culturali la cui marginalità storica è segno di parzialità o carenza di studi, ma non di fatti.

Qualunque sia la trattazione da darsi al problema dell’asimmetria, l’identità femminile non era stata fino ad oggi mai negata in via teorica, nè tanto meno sottoposta a concreta, violenta destrutturazione.

Con la negazione del genere, se non come accidente culturale o comportamentale, quindi relativo, modificabile e arbitrario, è proprio la donna a subire una cancellazione identitaria essenziale, in quanto espiantando la maternità dall’essenza femminile, si crea un vuoto incolmabile, angoscioso. È in questo vuoto che si espande – nel compulsivo ruolo di consumatrici, di carrieriste arrabbiate, di madri a tutti i costi, di professioniste delle pari opportunità – una specie di terrore del nulla, la ragione nemica a se stessa, eterodiretta, infelice.

La maternità come opzione pari o in concorrenza con altre non ha solo evidenti conseguenze demografiche, ma toglie alla donna la sua consapevolezza identitaria e determina una conflittualità antimaschile che deriva dalla stessa precarietà bisognosa di conferme, di riconoscimenti purchessia, di risarcimenti e rivalse.

La flagrante contraddittorietà delle teorie che da una parte fanno del genere una caratteristica accidentale e immatura, da pescare in una miscela di pulsioni, e dall’altra banalizzano una componente femminea da propagare oltre i confini dei sessi, hanno alla base un’implicita (ma nemmeno tanto) violenza verso le donne, nell’avvalorare modelli che ne cancellano l’identità e colpevolizzano i ruoli tradizionali.

Amplificati rozzamente dalla cialtroneria culturale dei media, questi modelli hanno un’influenza negativa sulla realtà delle coppie e delle famiglie, in quanto l’armonia tra i diversi sta nella coerenza e sicurezza degli stati identitari e nella trasmissione degli stessi.

La difesa dell’identità materna – sia che si realizzi nella famiglia, sia in altri percorsi di operatività sociale – è dunque elemento essenziale di equilibrio, di dinamica democratica e di capacità progettuale (lo dimostra, al negativo, la tragica incapacità dell’umanità ad accogliere la vita, sì che aborto e condizione dell’infanzia nel terzo mondo sono due facce della stessa negazione della maternità)

La diluizione della maternità in apparati ideologici, dalla coppia omosessuale, all’utero in affitto, ai concepimenti artificiali ultras, all’ingegneria genetica, induce, per squalificazione del principio ontologico materno, la rottura della sequenza educativa, l’irresponsabilità generazionale, la conflittualità tra i sessi e la negazione del ruolo paterno.

La negazione dell’identità maschile è infatti la naturale (appunto) conseguenza della snaturazione (appunto) di quello femminile.

Così la critica contro la preponderanza del genere uomo, unita alla deidentificazione della donna, ha la conseguenza di produrre un apparato di potere più impersonale, neutro, unisex, una terza forza, che produce a ritmo continuo effimeri modelli di stili di vita e di consumo, a cui prestano prezzolato supporto le più svariate agenzie del postmoderno.

La pretesa liberazione della donna dal suo destino biologico dimostra del resto la sua natura ideologica nella crescente mercificazione del corpo femminile, a cui si aggregano fasce di offerta che oltrepassano i limiti della perversione e della patologia criminale, ove si consideri il mercato globalizzato.

Contribuisce all’equivoco, in modo meno tragico ma illogico e sviante, la politica delle pari opportunità e delle quote rosa, che si presenta come correttivo per settori caratterizzati in realtà da malfunzionamento per tutti (accesso alla politica, al lavoro ecc.), stendendo un velo propagandistico sull’inefficienza di misure per la famiglia, alle cui esigenze, connotate negativamente e come disvalore, si attribuisce la condizione svantaggiata delle donne.

La frammentazione dell’identità femminile fa di ognuno dei frammenti qualcosa di commerciabile: alle bambine e adolescenti, buttate allo sbaraglio, si propinano modelli femminili arcaici e sdolcinati (nei giocattoli) e contemporaneamente il sexy precoce, il fare sesso come obbligo e l’ossessione della violenza maschile tra stupri e fidanzatini dodicenni… Tolto alla sessualità il significato morale, l’uso inflattivo del termine amore, ormai ultimo cascame della mitizzazione romantica, produce un bovarismo di ritorno, un’attesa disperatamente ingenua, una triste disponibilità, la non accettazione dell’età e del mutare dei ruoli, la depressione e la solitudine, a cui si adegua un’idonea gamma di offerta commerciale e di trattamento.

Se l’identità sessuale è un’opzione, se la maternità è un onere o una forma di consumo, se la realizzazione personale una questione di lotta tra i sessi, sono proprio le donne a pagare il prezzo più alto, in cambio degli ambigui e altrimenti distruttivi apparati garantisti del political correct.

E qui l’intuizione di Illich è perfettamente pertinente. La destrutturazione dell’identità femminile e della maternità è lo stadio necessario per accedere agli scenari de “I rischi della genetica liberale” di Habermas, altro testo che, pur recente (3) sembrava porre le questioni con eccessivo pessimismo, e che invece è già superato dagli eventi.

Il modello unisex transex è la premessa della maternità in vendita e della manipolazione eugenetica.

È il soggetto consumatore del nuovo mercato non solo della sessualità mercificata, ma dell’identità sessuale, tramite indispensabile per il passaggio successivo alle tecniche riproduttive definitivamente distaccate dalla realtà personale integrale, dei genitori e del generato.

La casualità naturale, che trova la sua originale incarnazione nell’interazione madre/figlio e che l’identità femminile è predisposta ad accogliere nell’infinita variabilità dell’essere, viene sostituita da un’operatività tecnologica ripartita tra varie agenzie interessate, influenzabile dalle ideologie se non dalle mode.

Si viene qui a ledere quello che Habermas chiama il diritto a poter essere se stessi e non prodotti di un intervento prenatale.

Le perplessità e le preoccupazioni del filosofo circa l’estensione dall’intervento negativo terapeutico (per lui accettabile) a quello positivo eugenetico, sembravano in quella fase ancora teoriche, proprio perché mancava ancora il congegno intermedio destrutturante l’identità materna, di per sé ostacolo e rottura di continuità per le manipolazioni eterodirette e per la liberalizzazione selvaggia della genetica.

Ma ove il principio materno viene decostruito in sede di negazione del genere, tale passaggio avviene agevolmente, perché l’elemento eugenetico razzistico viene diluito in diversi passaggi, oggettivato e normalizzato: è la nuova forma della banalità del male. La sequenza della trasmissione della vita come atto creativo di due persone, nella sua concretezza che accede all’infinita potenzialità dell’essere, viene sostituita da protocolli tecnici a soddisfare una domanda a sua volta manipolabile.

La società destrutturata, disintegrando l’identità materna femminile predisposta all’accoglienza della vita, è una società sterile, che non trasmette arricchendo ma copia impoverendo.

Più che la Grande Madre, che risucchi la società umana in una specie di brodo dell’inconscio primordiale, si prospetta il grande nulla di esseri senza identità e memoria, in cui la scienza asservita al profitto e la ragione esausta si infrangono scompostamente alle barriere del tempo.

1 In riferimento all’aborto, anziché affermare al positivo il diritto all’integrità della donna e del concepito, si è affermato come diritto (o addirittura dovere)l’irruzione negativa e distruttiva del sociale nel suo corpo.

2 La figura di Maria è quella della Donna che si identifica in una Maternità trasfigurata, al di fuori della società e della storia, e nello stesso tempo ne vive l’esperienza concreta ; ogni donna, al di là della fede, intuisce in questa immagine lo specchio ideale del proprio essere, sia che l’accolga, sia che – soffrendone – ad esso si rifiuti.

3 J. Habermas – Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale – Einaudi 2002.

https://ilcovile.it/scritti/COVILE_587.pdf

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PCI & FEMMINISMO

Nel PCI il trattamento ideologico dell’identità femminile, elaborato nella forma di “questione femminile”, conteneva anche precedentemente al ‘68 elementi di ambiguità, con una doppia morale per “compagne emancipate” e donne ancora legate ai valori tradizionali del costume e della famiglia.

Negli anni 70 il PCI, pur con riserve iniziali, puntò ad attrarre un consenso delle donne anche facendo leva su motivazioni al negativo, antifamiliari ed antimaterne, libertarie, tipiche di tematiche femministe d’importazione, confluenti nella c.d. rivoluzione sessuale.

Progressivamente gli obiettivi per l’occupazione e i servizi sociali, spazio tradizionale delle “commissioni femminili”, assunsero anch’essi un carattere emancipazionista, specializzato, come requisiti per una pretesa liberazione della donna, sul piano della creatività, del costume, delle carriere (anche politiche).

In generale la sinistra, dai movimenti extraparlamentari ai partiti, rinunciò ad un trattamento razionale della questione, per sostenere, in forme diverse e a vario titolo — e anche con contraddizioni interne — un movimento minoritario nella società, ma aggressivo, moderno, attento alle dinamiche del potere e d’altra parte idoneo a farsi veicolo di nuovi stili di vita e di consumo.

L’invenzione di uno specifico femminile avveniva così a spese dell’identità femminile e della famiglia.

Evaporate nel tempo le sorellanze, pagato (donne, uomini, figli) un alto prezzo di sofferenze, ne resta il fenomeno mercantile, l’unico oggettivo: ossessione e commercio del corpo, consumismo compulsivo.

In questo micidiale combinato di rozzezza culturale, opportunismo politico e spinte del mercato, l’identità femminile — collettiva e spesso singola, ahimè — è stata destrutturata a livello di movimenti di opinione, sulla stampa, nella pubblicità, nella scuola: si banalizzavano testi già banali e culturalmente gracili, dalla Mistica della femminilità al famigerato “Dalla parte delle bambine”, mentre le amministrazioni locali di sinistra esibivano come fiore all’occhiello i servizi per la prima infanzia o per il tempo pieno scolastico, di per sé sacrosanti, ma propagandati dai teorici come alternativi alla famiglia e liberatori per la donna.

Nella prospettiva, risulta chiaro che l’accento posto da una parte sui movimenti collettivi e dall’altro su “il privato è politico”, collocava al di fuori della famiglia i miti della realizzazione individuale, mentre la famiglia stessa permaneva come fattore economico decisivo nella società dei consumi e ripiego per le forme di precarietà sociale.

Al di là delle punte estreme del femminismo delirante, è nel diffondersi di una serie di luoghi comuni, di slogan ideologici , di pratiche educative, di modelli imposti dai media e dalla pubblicità, che un naturale processo di superamento di dislivelli anacronistici e irrazionali tra i due sessi, è diventata una triste, spesso autodistruttiva rinuncia delle donne ai valori costitutivi della propria identità.

Costitutivi, proprio in quanto valori, legati alla maternità, al rispetto per il proprio corpo, all’attenzione verso l’uomo e la famiglia.

Questi valori, che non sono istinti, ma fattori integrati di verità, psicologici e razionali, sono stati prima messi in discussione come limiti e condizionamenti (da correggere eventualmente con le “pari opportunità”!), poi accusati di integralismo e fatti oggetto degli attacchi del laicismo radicale, in cui si sono rifugiate le estreme propaggini del femminismo, ormai tragicamente stritolate nella contraddizione tra una cultura di morte (aborto, eutanasia) e la complicità nella disumanizzazione della riproduzione.

In questo quadro il materialismo pulsionale e la rozzezza culturale dei movimenti femministi hanno finito per fornire, in modo davvero subalterno, i presupposti di accettazione conformistica se non di consenso per una società sterile, supermercato globale ove tutto ha un prezzo e niente ha un valore in sé.

I modelli propagandati dai media sono sempre peggiori, e sempre più devastanti, fino al relativismo di genere, e alla mercificazione attiva e passiva del corpo, di cui può essere simbolo estremo, più che il sottobosco delle accompagnatrici e delle ospiti a pagamento, lo spaventoso fenomeno dell’impiego erotico dei corpi infantili e adolescenti nei servizi fotografici di moda o pseudoartistici.

È chiaro che una sinistra a cui fornisce l’unica ispirazione l’ambiente radical-chic dei media e la massa immobile della pubblica amministrazione e del suo indotto, non può che gestire il residuo ideologico dello sfascio.

Le campagne moralistiche che isolano i singoli comportamenti dal contesto, sono ipocrite e strumentali.

Ove la sessualità è stata sbandierata come priva di significato morale, e come materia di esclusivo diritto individuale (con l’unico limite ancora fissato — fino a quando? — della pedofilia), i fasti del demi-monde intorno alla politica seguono il copione delle fiction e del gossip televisivo, niente più, niente meno.

Il veleno insito nelle teorizzazioni del femminismo — la cui lettura sarebbe comica se non si pensasse alle tonnellate di infelicità che hanno prodotto — è oggi più evidente perché la patologia sociale, culturale e morale è conclamata, ai limiti dell’emergenza.

Occorrerebbe in questi casi avere il coraggio morale di ricercare nel passato quelle linee alternative che allora furono trascurate, emarginate e sconfitte, ma che operano nel silenzio, lontano dai riflettori, e fare forza su di esse, al positivo, per la riaffermazione di valori etici fondanti la società.

Consapevoli che, via via che si dissolvono nel passaggio generazionale le sopravvivenze della tradizione, il relativismo individualistico si dimostrerà sempre più incapace di dare alla collettività una base di efficienza, di concordia e tanto meno di felicità.

GABRIELLA ROUF
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FEMMINISTIZZAZIONE ED ERA DELL’ALIENAZIONE RADICALE

Va precisandosi, accanto alle tematiche classiche della “Questione Maschile”, un filone di critica alla femminilizzazione della società, che si fonda ormai, nei paesi dove il fenomeno è più avanzato, su statistiche, dati di fatto e studi seri.
La lotta agli «stereotipi sessuali», superstite del ’68 e riportata in auge dalle teorie del gender, si traduce nel disfavore, emarginazione e censura degli aspetti caratteristici della maschilità, visti sempre in una loro dinamica negativa.
In questa tendenza è insito un paradosso che ne svela la natura totalmente ideologica.
Infatti, a contraltare di quello maschile, viene avvalorato e propagandato un modello femminile che è esso davvero uno stereotipo, e molto più rigido, schematico, misero e grezzo di ogni altro che in qualunque epoca si sia affermato.
Esso è composto di luoghi comuni, banalità, immagini pubblicitarie, apparenze, il tutto a mascherare un nocciolo duro, ideologico, elaborato ed imposto, e per suprema ironia proprio da quelle femministe che un dì parlavano di liberazione della donna.
Questo stereotipo femminile nasce dall’opzione di attaccare la supremazia maschile sul suo stesso terreno, quindi imitandone ed assorbendone gli aspetti che contemporaneamente erano criticati e combattuti.
Ciò vale sia per i costumi sessuali che per le forme di carrierismo e di potere. Nel primo caso, la cd. liberazione sessuale femminile si è tradotta in una paranoia antimaterna, in una dissociazione innaturale e forzata, che prima di essere nel costume, si opera nella donna, costretta a professare uno stile di vita che le ripugna profondamente, compresa la banalizzazione dell’aborto.
Ne residua un’area di sentimentalismo, che, priva di strutture di riferimento morali e fisiche, fa regredire la donna ad una perpetua «posta del cuore», in forma virtuale e fantastica, un neobovarismo miserevole, di sms e Moccia.
Questo sentimentalismo, patetico frammento dell’identità femminile disgregata, è quanto viene spalmato sull’intera società, che s’intenerisce sui «fidanzatini» per bambini di cinque anni e sugli idilli senili.
Questo amore onnipresente, senza radici, debolmente pulsionale, virtuale, corrisponde con tutta evidenza alle esigenze dello spettacolo e dei consumi, e quindi è il più subalterno e alienato che ci sia mai stato. In esso la donna si fa tramite, serva sciocca e volonterosa, pretendendo dall’uomo una similare emotività, coccole e lacrime.
Nello stesso tempo non solo non si è liberata dall’antica mercificazione del corpo, ma l’ha interiorizzata subendo e diffondendo un culto dell’apparenza, fino al grandguignol della chirurgia estetica.
Sotto il profilo della lotta di potere con il maschio nel lavoro e nelle istituzioni, in quanto la penetrazione rivendicazionistica, attuata attraverso il meccanismo avvilente delle quote rosa, non poteva che tradursi nella formazione di gruppi di pseudorappresentatività, che hanno assunto acriticamente e frettolosamente il political correct come unica risorsa e il femminismo di cui sopra (quindi impoverito, disgregato e subalterno) come sigillo identitario.
È in questo campo la verifica più puntuale della forma pervertita e ristretta di femminilizzazione della società.
Se infatti alla presenza o addirittura prevalenza femminile nei poteri pubblici corrispondesse la tutela degli interessi fondamentali delle donne, si dovrebbe assistere ad una decisa estensione e messa a regime di norme e servizi a sostegno della maternità, per lo meno nel recepimento delle raccomandazioni OMS, della pediatria e della psicologia infantile, e anche se essi riguardassero solo una percentuale di donne.
Al contrario, in una situazione di inadeguatezza e di cronica insufficienza delle une e degli altri, ed anzi di diffusione di inedite forme di discriminazione e mobbing, nonché di gravi difficoltà per le famiglie e di generale emergenza educativa, si vuole spalmare la funzione materna sull’uomo (con grave pregiudizio del suo ruolo paterno ed educativo), negando in tutti i modi possibili la radice biologica della generazione, sia che la si recida con l’aborto, o la si collochi come una fase tutta sentimentale da condividere nella coppia (altra entità di nuova coniazione che si vuole titolare di diritti), o che addirittura la si metta sul mercato degli uteri in prestito ecc.
Insomma, l’antico tema del conciliare famiglia e lavoro, abbandonate le concrete ma costose e mai esaudite tematiche dei servizi, ha trovato una nuova versione: quasi azzeramento delle nascite (demandate alla popolazione immigrata autosufficiente), distribuzione dei bambini sin da neonati tra madri, padri, ex, nonni, baby sitter, e in definitiva alla TV e videogiochi.
Anche su questi aspetti, è plateale la contraddizione tra il preteso e sbandierato nuovo contributo qualitativo delle donne alla politica e nelle professioni e il ruolo puramente gestionale, conformistico, presenzialistico, da esse svolto, con l’assunzione imprudente, fanatica quanto superficiale di tematiche di natura antropologica (nozze e adozioni omo, biotecnologie, eutanasia).
La donna presta così di nuovo il suo peso quantitativo in una subalternità non all’uomo, ma ad una struttura impersonale, che sovrasta e dirige senza che ne siano identificabili le gerarchie di potere, e che proprio per questo necessita della massima fluidità, relativizzazione e atomizzazione sociale.
La famiglia, costituendo nucleo integrato antropologico, deve necessariamente dissolversi a favore di aggregazioni provvisorie e sradicate, mentre a livello intermedio (istituzionale-mediatico) si struttura l’apparato ideologico in leggi, regolamenti, programmi, enti formativi, «cultura», a cui un personale femminile selezionato in conformità per cooptazione fornisce l’organizzazione del consenso, la divulgazione, la sorveglianza.
Sarebbe pertanto più esatto parlare non tanto di femminilizzazione, quanto di femministizzazione della società, perché è il femminismo, al misero esito di tante battaglie, buttatosi tra le braccia delle teorie del gender (unica salvezza per teorizzazioni ormai esauste e autopunitive) che offre al nuovo Moloch in veste glamour il sostegno pratico e la dottrina elementare. La femministizzazione della società avviene direttamente a discapito della maggioranza di donne che con impegno, speranza e sacrificio e senza sentimentalismi, portano avanti la prospettiva di vita in primo luogo nella famiglia. Può accadere che esse non trovino nell’uomo un sufficiente riscontro, ma è certo che non lo trovano nella società, che vede nei bambini solo un target, dal latte artificiale all’Ipod, e rema contro, quanto alla stabilità economica e affettiva della famiglia, a sani stili di vita e a modelli di comportamento, soprattutto per gli adolescenti.
È innegabile che psicologicamente il ruolo materno abbia insita una natura possessiva (inerente all’aver cura di); questa tendenza, che ha fatto le spese della critica antimatriarcale da parte delle teorie gender, è caso mai incentivata dall’indebolimento dell’identità maschile, e lo è di certo dall’aumentare della situazione di precarietà e di insicurezza, ambientale, economica e affettiva.
Si tratta anche qui di un paradosso: le madri del 68, lassiste ed emancipate, sono state le peggiori matriarche castratrici, responsabili della prima generazione di figli maschi in crisi di identità.
Ma anche qui, anziché fare una critica intelligente agli errori del passato, in modo da renderli reversibili, cosa si fa? La possessività materna radicata nella biologia viene spalmata «pour tous», trasformando il figlio in un diritto, in un oggetto da conquistare oltre la natura, la logica e la pietà.
Mentre scienze umane non proprio esatte, ma dignitose, come psicologia, psicanalisi e sociologia (non parliamo poi della biologia, della storia, della statistica) vanno nel dimenticatoio a favore di formulette di facile apprendimento, slogan e farneticazioni, materia di tesi di laurea improvvisate, performance artistiche, titoli di cronaca rosa e nera. Ma siamo ancora nel fluido, nel mercato libero delle idee, tra relativismi e pensieri sempre più deboli.
Ecco invece che cala nel ribollire non certo spontaneo, ma ancora fisiologico e vitale, della postmodernità, la scure ideologica che segna il punto di non ritorno, ufficializzando come base scientifica oggettiva il suddetto impresentabile coacervo di opinioni e mode. Subdolamente, attraverso anodine premesse a leggine e programmi, oppure clamorosamente, attraverso cortei e manifestazioni, il fronte ideologico s’impone: usando alternativamente la piazza e la burocrazia, fino a che vengano date per scontate le peggiori aberrazioni, finché ci si abitui alla normalità del male e dell’assurdo. Si crea così infine il consenso intorno alle leggi e alle conseguenti misure impositive e sanzionatorie.
In ciascuna di queste fasi, viene individuato e suscitato ad hoc il nemico, da condannare o rieducare: il maschio, la famiglia tradizionale, il patriarcato o il matriarcato, l’omofobo, lo stesso linguaggio (proibizione dei termini madre e padre).
In parallelo vengono irrigiditi e concettualizzati, imponendone l’uscita dal privato più precoce possibile, i comportamenti o addirittura gli orientamenti sessuali, meccanismo psicologico ben noto per sorvegliare e integrare.
La premessa ideologica non viene di fatto mai messa in discussione in alcuna sede, perché viene assunta in modo intimidatorio come un a priori, di cui sono in possesso in modo esclusivo ipotetiche élite intellettuali, scientifiche, addirittura morali, secondo un procedimento gnostico. Di essa viene diffusa una
dottrina rozza, schematica, puerile (appunto quella della lotta agli stereotipi, per es.), o fattispecie propagandistiche (contro l’omofobia, contro il femminicidio) utili a veicolarne le premesse logiche, necessarie ad ulteriori tappe. Intorno al nucleo (poco importa se corrisponde a specifici gruppi o persone fisiche, e quali essi siano, in questa fase) viene pertanto ad allargarsi un consenso in forma di ricatto morale, a cui i politici, in disperata ricerca di un gradimento purchessia o per distrarre dalla loro incapacità, si precipiteranno a dare esiti istituzionali, e i media, totalmente organici e strumentali, adeguata visibilità.
Basandosi su false premesse scientifiche possono così diffondersi e diventare scontate teorie strampalate e aberranti, quali quelle del gender, nate nell’anemia intellettuale dei campus USA, ove esse corrispondano all’animazione di scenari di mera massificazione. Questo dovrebbe suonare da campanello d’allarme: quando si sbandierano mete di uguaglianza, emancipazione, progresso, per raggiungere le quali è giustificato limitare la discussione, irreggimentare la società, incentivare paranoie persecutorie, delazioni, processi pubblici e rieducazioni di massa (attraverso la scuola, i media, la «cultura»), imporre teorie sociali e scientifiche per legge, con relative sanzioni, ecc. è l’ideologia che sottende e governa, con il suo potere di corruzione materiale e intellettuale.
La coerenza dell’attuale progetto ideologico, che non prende forma in tradizionali riconoscibili strutture politiche (per il discredito e sostanziale intercambiabilità della casta e delle istituzioni), la sua lungimiranza, articolazione, pervasività, dimensione corrispondente ai bacini economici di consumo post-capitalisti (con parallelo ipersfruttamento delle masse escluse) prefigura un totalitarismo non più razziale (nazismo), né di classe (comunismo), ma impersonale e irraggiungibile dalla critica come dalla lotta, mitigate o mal indirizzate su obiettivi svianti o addirittura ad esso confluenti
Scomparse le antiche virtù eroiche e ogni senso di responsabilità verso la generazioni future, un frammento di felicità a breve scadenza dev’essere promesso a tutti, purché ci si annulli nel flusso queer, ci si accontenti dei supermercati d’ogni oggetto, apparenza, identità.
Le critiche alla disumanizzazione insita nello sviluppo postcapitalistico trovano così il loro completamento e conferma nell’attuale saldarsi della piattaforma globalizzata gender, liberalismo genetico e politiche di morte soft (aborto e eutanasia).
Di una deriva così grave non può essere data colpa esclusiva al femminismo o tanto meno alle donne, e sarebbe il momento che gli uomini trovassero in sé, nella loro identità e nelle loro risorse la forza di salvare non solo se stessi, ma l’umanità intera da pericoli oscuri, ai quali occorre applicare non solo una tenace opposizione, ma nuovi e approfonditi strumenti di analisi.
La memoria del Male del secolo scorso, già così selettiva da alimentare i peggiori sospetti, dovrebbe rendere accorti nell’individuare le derive di alienazione ideologica, e rendere diffidenti verso unanimismi, conformismi di massa e movimenti rivendicazionistici manovrati dall’alto, ufficializzati e propagandati dai media, e guardati con comprensione se non simpatia da chi dovrebbe su di essi esercitare discernimento e chiamarli col nome che meritano.
La storia, che interroga il mistero del Male assoluto della Shoah, vede nella normalizzazione del male stesso, nella perversione della scienza, nel conformismo cieco e interessato, nella banalità sgretolata di uomini e fatti, il triste deserto con cui l’ideologia può preparare l’irrompere dell’impensabile
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Questo quadro (Firmando il registro, di Edmund Blair Leighton, 1852–1922), che si incontrava nella sala dei matrimoni della prefettura de Bristol (UK), è stato tolto per non «offendere» gli omosessuali

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PATRIARCATO, MATRIARCATO & VIOLENZA

Secondo Erich Neumann (Storia delle origini della coscienza), la questione matriarcato/patriarcato deve porsi in primo luogo in termini psicologici. È la coscienza egoica, di natura simbolicamente maschile, che emerge e si affranca dall’archetipo prima dominante della Grande Madre, in cui domina l’inconscio e nel quale, fondamentalmente, regna l’indistinzione fra l’io e il tu, fra l’individuo e il cosmo/natura.
Porre l’accento sull’aspetto psicologico, anche nell’interpretazione dei simboli, consente a Neumann di superare le problematiche relative all’esistenza
storica di un matriarcato sociologico. Perché, sostiene, le tappe dello sviluppo della coscienza che hanno determinato l’avvento del patriarcato sono comuni, indipendentemente dalla prevalenza nel sociale del gruppo femminile o maschile.
Il fatto che l’artefice del processo sia stato anche concretamente il gruppo maschile, è una conseguenza, ovvia ma non necessariamente obbligata, del simbolismo psichico che contrappone la coscienza/maschile, all’inconscio/femminile.
Rimane il fatto che del processo emancipativo della coscienza hanno beneficiato tutti, anche il femminile altrimenti impigliato anch’esso nella pura identificazione col materno, o meglio nel suo lato negativo e divorante.
Ma le conquiste della coscienza, per Neumann, non sono mai date una volta per tutte.
Il pericolo della regressione ad uno stadio precedente è costante.
È per questo che la cultura occidentale ha dovuto operare la rimozione del lato oscuro, bestiale, e potente, della Grande Madre, mettendone invece in risalto il lato benevolo, di accudimento. Da potenza incombente la Grande Madre è divenuta la madre buona e la sposa fedele. Ora è accaduto, Neumann scriveva subito dopo la seconda guerra mondiale, che “il processo in sé positivo dell’emancipazione dell’io e della coscienza dallo strapotere dell’inconscio, è diventato negativo”, avendo trasformato la divisione dei sistemi conscio/inconscio, necessari al sorgere del canone culturale ed alla coscienza morale, in vera e propria dissociazione, fino alla negazione dello stesso inconscio.
Così rimosso ma non sparito, l’inconscio è libero di agire in modo sotterraneo, riuscendo a indirizzare l’agire concreto del’uomo moderno, regredito da individuo a uomo massa.
“Quest’uomo di massa parziale e inconscio è opposto alla coscienza e al mondo culturale, […] è irrazionale ed emotivo, anti-individuale e distruttivo.” […] “I demoni e gli archetipi riacquistano la loro autonomia, la psiche individuale si fonde di nuovo con la Grande Madre terribile, e con essa perdono ogni validità l’esperienza individuale della voce e la responsabilità del singolo di fronte all’uomo e a Dio.” […] “Il tracollo della coscienza e del suo orientamento verso il canone culturale travolge anche l’azione dell’istanza della coscienza morale, del Super-io, nonché la maschilità della coscienza.
Compare allora una femminilizzazione sotto forma di un allagamento da parte del lato inconscio..”
Un’altra ipotesi, diversa ma con alcune assonanze con la precedente, è quella di Britton Johnston che prende le mosse dalla teoria dell’antopologo René Girard.
Secondo Girard, il problema fondamentale che l’umanità ha dovuto risolvere non è di ordine materiale legato al nutrimento, ma è quello del controllo della violenza indifferenziata, che si scatenerebbe in ragione dei comportamenti mimetici che inducono gli individui a desiderare per sé ciò che desiderano gli altri e dunque scatenare comportamenti violenti che portano all’autodistruzione della società.
Sempre per Girard (La violenza e il sacro), non sono le differenze culturali a scatenare la violenza, ma la loro perdita (che equivale alla crisi dell’ordine culturale definito come come “sistema organizzato di differenze”) a provocare la rivalità e la lotta incontrollabile fra gli uomini.
In tal caso, il solo modo per arginare la violenza generalizzata e consentire la vita associata, è quello di spostare la violenza collettiva su un soggetto terzo impossibilitato a vendicarsi, la vittima sacrificale. La violenza di cui viene fatto oggetto assume così una valenza purificatrice per la comunità. Per Girard è questo, di argine alla violenza distruttiva, il senso e la funzione delle religioni e del Sacro che sono sempre connessi ai riti sacrificali. Partendo da questo paradigma, Britton Johnston osserva:
“Quello che intendo come principio femminile è precisamente l’insieme delle caratteristiche della femminilità che vengono esaltate nell’antropologia femminista – affettività, attenzione, confidenza, cura materna, empatia, e altre ancora. Queste caratteristiche sono bensì essenziali per la crescita e la vita umana, ma nello stesso tempo di per sé costituiscono una minaccia culturale, la minaccia dell’indifferenziazione. Queste qualità femminili tendono a cancellare confini e differenze. Come ha ha mostrato Girard, quando la differenza comincia a svanire, si sviluppa una crisi mimetica che trapassa in violenza indifferenziata. La violenza indifferenziata può distruggere completamente la comunità. La ‘medicina’ contro la crisi mimetica è il mantenimento della differenza mediante una violenza attentamente manipolata e mirata – con l’essere femminile stesso come vittima sacrificata. Pertanto il principio femminile deve essere bilanciato da un principio maschile artificialmente esagerato – aggressività e differenziazione – al fine di scongiurare la crisi mimetica. Per la cultura il patriarcato diventa il mezzo per sopravvivere”.
Per Johnston, dunque, il patriarcato nasce nelle culture agricole primitive di tipo matriarcale, come risposta alla crisi mimetica generata dall’indifferenziazione prodotta dal prevalere del principio femminile. Sarebbe dunque un rimedio, un male minore, di fronte alla prospettiva dell’autodistruzione della stessa civiltà.
Non intendo discutere della validità scientifica di queste teorie, ho cercato di esporle perché offrono chiavi di lettura sull’origine del patriarcato diverse da quelle dominanti, strette fra lo “stato di necessità” materiale e la fissazione ontologica di bene e male nei due generi sessuali. Ed anche perché ci permettono entrambe una lettura del presente assai difforme da quella corrente, che è del tutto insufficiente a spiegarne le contraddizioni.
Sono da notare alcune interessanti analogie. Intanto che la crisi dovuta al prevalere del principio femminile indifferenziante di Johnston è riconducibile alla regressione della maschilità della coscienza di Neumann come tendenza verso il ritorno allo stato precoscienziale dell’umanità. Sempre sulla questione degli esiti della perdita delle differenze, è da sottolineare anche l’assonananza con la tesi ricordata sopra di Ivan Illich rispetto alla competizione fra i sessi. Anche per lui è l’omologazione e non la differenziazione delle identità a provocare tensione, lotta ed alla fine prevaricazione.
Più in generale, il concetto è traslabile alla situazione complessiva del mondo moderno. Sul piano delle singole società sviluppate, per le quali Baumann ha coniato il termine “identità liquida”, ossia identità debole in continua mutazione e priva di ogni direzione che non sia l’inseguimento collettivo di status simbol costituiti da oggetti, ma anche sul piano internazionale.
La globalizzazione impone quella che Serge Latouche definisce “deculturazione”, ossia la distruzione delle identità, delle economie e più in generale delle culture tradizionali a favore di una omologazione generalizzata che non solo immiserisce i popoli, ma produce anche forti resistenze che sfociano in guerre e rivendicazioni su base etnica.
Non altrimenti, Benedetto XVI sostiene che il fondamentalismo religioso islamico trova carburante e motivi di crescita non a causa della identità cristiana dell’occidente, ma a causa della rinuncia ad essa.
Ancora più importante è evidenziare che sia la tesi di Neumann sia quella di Johnston conducono ad una conclusione simile. Quali che siano gli eccessi del patriarcato, che ci sono stati quando si è univocamente accentuato il simbolismo maschile senza integrarvi quello femminile, il ritorno ad una società culturalmente e psicologicamente centrata sul principio femminile di cui si vagheggia oggi la necessità, anziché salvare la civiltà, semplicemente la distruggerebbe. I miti dell’antichità, da quello babilonese della fondazione del mondo a quelli della Grecia classica, lo hanno già raccontato.
ARMANDO ERMINI

LA SOCIETA’ STERILEultima modifica: 2017-12-04T09:49:36+01:00da allan11
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