ETICA

 

Ogni discorso relativo all’”epistemologia” delle scienze umane, vale a dire ogni discorso fondativo della loro scientificità (epistéme) risente tutt’ora del classico dibattito di fine ottocento che oppose le scienze della natura (o scienze nomotetiche) alle scienze dello spirito (o scienze idiografiche). Per molti aspetti tale dibattito è ancora aperto.

Da cosa dipende allora il perdurare di tale questione ?

Questo perdurare dipende dal nodo centrale del problema, il quale, in sostanza, non è mai stato sciolto o debitamente compreso.

Ne deriva che ogni pretesa di pervenire a un’epistemologia delle scienze umane resterà meramente illusoria, sino a che quel nodo non sarà chiarito.

In che si caratterizza e consiste questo nodo ?

1°) Le scienze umane sono parte (e invero fragile) delle scienze della natura. Da queste ultime, infatti, mutuano, per quanto è possibile, il metodo, al fine di apparire, appunto, “scientifiche” Così esse si sforzano di procedere analiticamente e sperimentalmente, mirano alla qualificazione statistica dei loro dati, all’”obiettività” dei procedimenti e degli strumenti, ecc. In una parola, esse assumono il modello scientifico “forte” delle scienze della natura, ovvero condividono con questo ultimo l’idea di ciò che sarebbe “scienza” in senso proprio, anche se ciò crea loro non poche difficoltà e paradossi.

2°) Ma in quanto le scienze umane sono, come si diceva, scienze dello spirito, ecco che la loro immagine si muta da quella dell’esser parte a quella dell’esser piuttosto tutto, il tutto della scientificità.

In termini ancor più semplici : come è possibile che una “creatura umana”, la scienza, possa essere la misura dell’umano stesso ?

Secondo una acuta osservazione di Husserl nella “Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, anche le scienze della natura sono, infatti, delle “formazioni spirituali” ovviamente umane.

Fu lo spirito greco (la sua filosofia) a gettarne i fondamenti e fu lo spirito della moderna Europa a tenerne a battesimo la nascita.

In altri termini, le scienze della natura non derivano dalla natura, ma dallo spirito dell’uomo e da una sua ben definita vicenda storica. (vedi allegato “ La Metafisica Horror del Big Bang”)

Anche Vico, ben prima di Husserl, se ne era reso conto : non c’è “fatto” se non nella “verificazione” dello spirito e della sua evoluzione storica.

Ecco che allora le scienze dello spirito, in quanto studiano, tra l’altro, proprio quella evoluzione storica, sembrano ora rappresentare quel tutto di cui le scienze della natura sarebbero una parte, un prodotto e un particolare risultato.

Questo paradosso non è poi così strano, se si considera che le scienze umane pongono a proprio oggetto proprio quello stesso uomo che ne è al contempo il soggetto e il creatore.

Si tratta del celebre paradosso della soggettività di cui parlava appunto Husserl con particolare riguardo alla PSICOLOGIA !!

Quest’ultima si configura, infatti, come scienza del soggetto.

Per essere scienza essa deve rispettare il canone dell’”obiettivismo” e quindi fare della soggettività il suo oggetto di studio. Ma in quanto resa “oggetto” la soggettività perde quello che è il suo carattere peculiare, cioè il suo essere soggetto.

La PSICOLOGIA E’ COSI’ AFFETTA DA UN PARADOSSO : proprio per essere scienza, essa non può assumere la sua “cosa” nel suo carattere peculiare (la soggettività). Ciò che essa dice riguardo al carattere oggettivo della soggettività, NON PERO’ IL SUO AUTENTICO CARATTERE SOGGETTIVO, a cominciare dalla soggettività stessa dello psicologo.

Per questo Husserl ravvisava nella psicologia la “scienza delle decisioni ultime”., al fine di chiarire il significato essenziale delle scienze europee.

Se non viene chiarito il paradosso della psicologia, tutto il problema della scientificità delle scienze permane nella sua ambiguità; in quanto tutte le scienze sono formazioni spirituali, cioè prodotti dall’operare della soggettività umana; e in particolare permane nell’ambiguità il fondamento delle scienze umane, delle quali la psicologia può intendersi come il prototipo, l’archetipo.

Ciò peraltro, bisogna aggiungere, mostra con estrema chiarezza quella che è la massima dignità e urgenza delle scienze umane e del loro problema: in esse e in esso si giocano infatti i destini ultimi del nostro sapere; in esse è in gioco ciò che oggi è di più essenziale, vale a dire il senso della nostra civiltà nel tempo in cui essa è sul punto di diventare planetaria e di coinvolgere nel proprio destino l’intero futuro della civiltà umana, in un intreccio di speranze e di pericoli che tutti avvertiamo.

Ma torniamo al nostro problema. L’uomo stesso, quindi, è quel tutto e insieme quella parte che è in gioco nella conoscenza scientifica, comunque tale conoscenza la si voglia qualificare; naturale o morale, fisica o storica, cosmologica o sociale ecc.,

Nella contemporaneità di parte e tutto si annida il paradosso; esso tuttavia non può venir chiarito se noi non ci sforziamo di comprenderne la necessità e l’origine.

Ma la necessita e l’origine sfumano e restano inavvertite se noi continuiamo a permanere entro il punto di vista delle epistemologie particolari, quali si sono sviluppate da Galileo ai nostri giorni.

In altri termini il nostro abituale e sempre più diffuso rinchiuderci entro la specializzazione, entro lo specialismo esasperato delle singole scienze, della natura come dello spirito, non ci consente di pervenire a nessuna soluzione del paradosso.

Noi ci avviamo al contrario verso una omologazione e un appiattimento di tutti i nostri saperi entro la mera PERFORMATIVITA’ TECNICA che è il tratto comune dello specialismo.

Il nostro fare indubbiamente si potenzia, ma la insensatezza del paradosso che lo affligge dall’interno si potenzia nascostamente a sua volta e ci avvia a una generale obiettivazione insensata della natura e dell’uomo, cioè a quella COSALIZZAZIONE alienante di tutte le nostre pratiche che è l’inquietante limite della poderosa macchina dei saperi occidentali.

Vi è necessità di un punto di vista più ampio e più libero di quello delle scienze specializzate; di un punto di vista che si faccia carico di una radicale critica e genealogia della ragione scientifica, nell’interesse della ragione scientifica stessa.

E questo è appunto il compito della filosofia, nel suo proficuo dialogo con le scienze in generale e con le scienze umane in particolare.

Proviamo allora ad applicare questo principio alla questione della nascita della ragione scientifica.

Sul filo di questa domanda si apre allora per noi la possibilità concreta di una riconsiderazione genealogica della nostra storia e del nostro destino.

Potremmo, allora, iniziare dicendo così :

1

La nascita della scienza è un evento che concerne l’operazione logica, vale a dire che riguarda il *logos* o discorso: si tratta, per così dire, di una “mutazione” che colpisce l’ordine del discorso e il suo senso. In particolare, alla narrazione del mito, al *mythologein* , succede il discorso controvertibile-incontrovertibile sul quale lavorano, inizialmente, gli eleati e poi i sofisti. Da qui un mutamento dello statuto della *verità*, che è stato colto efficacemente da Foucault nella sua prolusione su “L’ordine del discorso”. Dapprima la verità di un discorso deriva dall’autorità di colui che lo pronuncia: sacerdote, oracolo, sovrano, o più in generale il Dio che lo suggerisce; la verità del discorso appartiene al suo evento, all’atto e al luogo legittimo della sua enunciazione. Il discorso è vero perché lo dice il Dio. Poi la verità si trasferisce nel contenuto e nella modalità dell’enunciazione. Il discorso è vero non per l’autorità o il carattere peculiare di colui che lo fa, ma per ciò che dice e il modo in cui lo dice.

( E qui, permettetemi di dire, che mi sembra proprio il nostro caso, cioè questo richiamo dell’Ordine proferito con autoritarismo ma senza alcun confronto dialettico autentico stante una sentenza, che è logico ritenere, già decisa e che non terrà in alcun conto quanto detto fino ad ora e nel prosieguo.

Ma di questo non posso che esserne interessato meno che nulla)

Dall’operazione enunciativa del parlante la verità si sposta sull’operazione intrinseca del *logos*. Sulla modalità “logica” di questa operazione considerata in se stessa.

A questa nascita del discorso logico si accompagna ben presto il discorso basato sui “fatti” (sui documenti) che con Tucidide da avvio alla scienza della storia.

2

La nascita della scienza è intimamente connessa con un operazione “grafica”. Essa si intreccia profondamente con la nascita della scrittura alfabetica e ne è anzi conseguenza evidente (nessuna possibilità di scienza ove non è scrittura). Solo un soggetto educato alle operazioni della scrittura e della lettura può sviluppare una mente logica, una capacità di riflessione “fredda”, di verifica degli enunciati, di elaborazioni di teorie originali ecc. La scrittura alfabetica, inventata dai greci e da nessun altro popolo prima di loro, non è solo lo strumento o il mezzo grazie al quale la storia può venire scritta e la complessa definizione logica può venire fissata; al contrario è proprio la pratica della scrittura alfabetica che porta con sé una mentalità storiografica e logico-definitoria; è all’interno delle sue operazioni e della formulazione soggettiva, o degli abiti mentali, che ne derivano, che una verità storica e una verità logica si fanno strada.

3

Infine, la nascita della scienza è dipendente dalla COSTITUZIONE DI UNA VOCE UNIVERSALE , puramente spirituale, come voce silenziosa dell’”anima” che ne è il tipico prodotto a partire da Socrate e Platone, la quale esprime la visione “pura, ultrasensibile, e la descrive nel corpo docile della scrittura alfabetica, nella sua linearità corporea e temporale. Voce panoramica che da un luogo ultrasensibile dice la verità in sé del mondo e degli eventi, cioè come essi sono in se stessi, nella loro essenza (ousìa) e secondo la loro legge eterna. La ragione scientifica è pertanto una scrittura del mondo, i cui caratteri sono l’ultrasensibile , “qualità primarie”, e l’universale.

Ma in età moderna cominciano i guai !!

L’operatività di questa scrittura, dapprima prevalentemente DESCRITTIVA, diviene in età moderna capacità di previsione e infine di azione sulla natura: cioè capacità TECNICO-OPERATIVA di sostituire la natura, di surrogarla nei suoi fenomeni irresistibili, rendendoli resistibili, cioè modificabili entro certi limiti spostati a piacere !!

Ma siccome le disgrazie non vengono mai da sole a questo si aggiunge che il tutto è avvenuto poi grazie a un ulteriore grande mutamento nella pratica della scrittura che abbandona, per quanto è possibile, la scrittura alfabetica, già in se formalmente astratta e convenzionale, e la sostituisce con la scrittura matematica, cancellandone la CORPOSITA’, ancora troppo invadente delle lettere e del linguaggio comune, in nome di una ASTRAZIONE TOTALE !

Quella in cui oggi siamo immersi più che mai fino al collo !!!

Donde, infatti, la logistica e il carattere ultrasensibile, ormai inconcepibile sul piano del senso comune e della sua spazialità e temporalità, che caratterizzano le operazioni e i concetti della novecentesca fisica delle particelle nonché la concezione evoluzionistica del cosmo. (3)

Attraverso la via, quindi, che qui si è succintamente delineata, l’umanità europea ha percorso il cammino del suo sapere razionale, sempre più specificatosi nelle tecniche dei saperi parcellizzati ed EFFICACI.

Questa via è il fondamento genealogico stesso della razionalità che ne è la conseguenza e il risultato, e non qualcosa di astrattamente in sé, di universalmente valido anche fuori di questa via.

E allora solo sulla base della comprensione di questo fondamento che noi possiamo impostare il problema della epistemologia delle scienze umane, cioè del loro senso e fondamento, del carattere ultimo alla loro pretesa di scientificità.

Sino a ché il problema epistemologico delle scienze umane resta confinato in un ambito di considerazioni specialistiche, come un affare meramente interno di queste scienze stesse, come una loro operatività particolare e astrattamente specifica, non sarà in alcun modo possibile liberarsi dai paradossi che abbiamo enunciato all’inizio.

Né sarà possibile che le scienze umane si liberino davvero dal modello egemonico delle scienze della natura, assunto aproblematicamente e, per così dire, SUPERSTIZIOSAMENTE.

E in ciò le scienze umane scontano una duplice serie di incongruenze.

Restando debitrici verso il modello naturalistico, non riescono di fatto ad attingere, ove sia possibile, una propria autentica scientificità, congrua con la natura del loro oggetto di studio; ma d’altro lato, assumendo aproblematicamente, IGNARE DI CONSAPEVOLEZZA GENEALOGICA, il modello delle scienze naturali, condividono con esse l’aporeticità sostanziale di quello, cioè il DOGMATICO scambio tra una verità logicamente, matematicamente e tecnicamente, cioè metodologicamente, COSTRUITA e una verità e una verità che si SUPPONE universale.

Le scienze dell’uomo, tipico prodotto della “mentalità” occidentale e della sua storia presumono di parlare dell’”uomo in sé”, INGENUAMENTE ignare di ogni questione ERMENEUTICA e del PROBLEMA ERMENEUTICO DELLA VERITA’.

Al contrario, le scienze umane devono avviare una seria riflessione e analisi delle loro stesse pratiche. E’ proprio questa analisi genealogica delle pratiche il compito che sembra oggi più urgente e che potrebbe costituire il punto di riferimento unitario in base al quale avviare una collaborazione costruttiva tra scienze umane e filosofia.

Ma d’altra parte un’analisi della pratica, e di tutte le pratiche dei nostri saperi, è a sua volta essa stessa una pratica; ed è una pratica che ancora frequenta quella volontà teorica e conoscitiva tipica dell’Occidente che essa vuole analizzare.

Siamo così di fronte all’ultimo paradosso che caratterizza la nostra tradizione di sapere. Esso non è certamente superabile mirando a una super-pratica o pratica in grado di dire la verità assoluta e in sé di tutte le pratiche…questo non è altro che l’antico sogno metafisico che da sempre abita i nostri saperi.

Di fronte a questo paradosso si richiede invece una mutazione profonda, una rivoluzione non di questo o quel sapere, ma in generale del nostro modo di abitare il sapere e di porlo in esercizio.

Si richiede cioè, non una teoria delle pratiche, ma un ETICA del sapere e della scrittura, un’ERMENEUTICA ATTIVA capace di esporsi all’evento del fare e al suo destino.

Questa etica del pensiero e della scrittura , di cui nulla è qui possibile dire e che propriamente non è neppure da dire, ma piuttosto da praticare, è allora presumibilmente ciò in cui si risolve l’intenzionalità della filosofia e della sua tradizione. La vocazione nascosta dell’uomo filosofico, dell’uomo della teoria, si manifesta in essa e si chiarifica. Questa chiarificazione è poi l’essenza stessa delle scienze umane in quanto da sempre essenzialmente incentrate sul tema delle “scienze morali” : questa e non altra è la grandiosità del destino delle scienze umane, ove esse sappiano coglierlo al di là delle loro illusioni e ingenuità metodologiche, ciò per cui le scienze umane, come tutti avvertiamo, sono imprescindibili itinerari del futuro a cui sono affidate le speranze della civiltà tecnologica e planetaria che veniamo oscuramente edificando.

Questa chiarificazione delle pratiche è poi nient’altro che ciò che da ogni parte si invoca, ma in modi totalmente inadeguati, sotto il nome di “BIOETICA” : non una nuova scienza o una super-scienza, ma la capacità di abitare la scienza in modo sensato e non distruttivo.

Il ché significa che al tema generale delle pratiche è affidata la formazione dell’uomo

della tecnica : la formazione di un uomo finalmente capace, secondo la accorata domanda heideggeriana, di pensare la tecnica, cioè capace di abitarla, di farne l’orizzonte delle sue possibilità etiche (éthos, appunto, come costume, come abitare) un’occasione e una condizione grandiosa di libertà.

“Concludiamo, quindi, ripetendo sinteticamente, che infatti chiamiamo “scienze della natura”, attenzione, quelle che possono escogitare un metro da se stesse in se stesse, e su di esso si affermano: lo spazio misura se stesso mediante uno strumento puramente spaziale come il metro appunto. E così via per tutte le scienze della natura. Questo approccio, pur paradossale, garantisce la ripetibilità delle misure una volta che l’unità di misura sia oggetto di convenzione in una certa comunità.
Paradossale ma funziona, perché lo spazio che si misura mediante lo spazio non può sfuggire a se stesso.

Questo procedimento, nelle scienze umane, non è possibile. O, meglio, se si tenta di usarlo, la sua paradossalità emerge immediata sotto forma di autoreferenzialità, che priva di senso il procedimento stesso.

Le scienze umane hanno infatti come base la relazione fra umani, e nell’ambito della relazione – che di fatto è immateriale, nel senso di totalmente eterea e impossibile da misurare – non sono possibili che misure statistiche (“Statistica psicometrica”; il più osceno esame mai sostenuto, applicazione del metodo comunista alla psicologia) sui gruppi (quindi assai superficiali e grossolane), non certo nell’ambito di una relazione da persona a persona.

ETICAultima modifica: 2015-04-12T15:47:09+02:00da allan11
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