NEUROPSICOLOGIA

” Winnicott (1970) con i termini holding e handling materna affermò l’importanza relazionale madre-bambino nella costruzione della membrana-frontiera che separa l’Io dal non-Io. Secondo Winnicott l’assenza o la perdita di questa membrana provocherebbe l’abolizione delle frontiere del corpo e la frantumazione dell’Io, quindi della rappresentazione corporea.”

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Schema corporeo o Immagine corporea? Tra psicologia e neuropsicologia

Psicologia e neuropsicologia hanno tentato di spiegare le possibili correlazioni fra la percezione reale del corpo e l’immagine mentale che abbiamo di essoi

Quando parliamo di rappresentazione del corpo, ci riferiamo a due costrutti: l’immagine corporea, argomento di discussione psicologica e lo schema corporeo, che interessa maggiormente la neuropsicologia.

Fino a pochi anni fa, esisteva un’enorme confusione concettuale fra questi due costrutti. Uno stesso autore poteva parlare di rappresentazione corporea utilizzando termini intercambiabili. L’Autore a cui mi riferisco è Schilder, la cui opera “Immagine di sé e schema corporeo” (1935) è la prima e più completa opera in merito a questo argomento. Schilder ha avviato questo dibattito, ha chiarito qualche interrogativo, ma, al tempo steso, ha aperto una ricerca decennale, non ancora del tutto soddisfatta, in merito alla rappresentazione corporea.

Come si è giunti al concetto di “schema corporeo”? Perché il termine “immagine corporea” si riferisce alla sola patologia psichica o psichiatrica? Quali sono i punti di sovrapposizione?

Il concetto di schema corporeo nasce agli inizi del XX secolo, ma una primissima elaborazione teorica sulla rappresentazione mentale del nostro corpo si può far risalire alla seconda metà del XIX secolo nella ricerca fisiologica e neurologica dell’epoca.

Il primo ad utilizzare il termine “schema corporeo” fu Bonnier, nel 1905, distinguendo il senso dello spazio e l’orientamento soggettivo rispetto al mondo esterno. Il criterio topologico di Bonnier ci consente di occupare un luogo nello spazio (solo nostro), all’interno del quale sappiamo orientarci e localizziamo le diverse parti del corpo. Egli definisce “aschematia” l’alterazione di tale rappresentazione topografica e spaziale e individua nell’attività vestibolare il contributo principale ad essa.

Schilder, nella sua opera più famosa, definisce l’immagine del corpo umano come “il quadro mentale che ci facciamo del nostro corpo, vale a dire il modo in cui il corpo appare a noi stessi” oppure “lo schema corporeo è l’immagine tridimensionale che ciascuno ha di se stesso: possiamo anche definirlo immagine corporea”.

Schilder è uno psicologo, si occupa poco della localizzazione dello schema corporeo, anzi accetta le ipotesi dei suoi predecessori, quali Pick o Anton e Babinski e per questo viene attaccato dalla neuropsicologia, seppure preso molto in considerazione per le sue teorie “ponte” fra la psicologia tradizionale e la moderna neuropsicologia. Nello stesso Autore convivono tre pensieri: quello dello sviluppo libidico, da cui dipenderebbe uno schema corporeo che si struttura e destruttura all’infinito, quello sociologico, secondo cui la rappresentazione corporea non è altro che la somma delle immagini corporee della comunità, da cui dipenderebbe il nostro modo di rapportarci con il nostro corpo e con gli altri e quello neuropsicologico, un maldestro ma interessante tentativo di spiegare i disturbi dello schema corporeo, che interessano soprattutto il lato sinistro del corpo, per una dominanza o preferenza del lato destro che, essendo più forte, sarebbe meno esposto a questi disturbi.

Schilder fu un autore molto apprezzato, ma l’errore che il mondo scientifico non gli ha perdonato è quello di aver utilizzato i termini “schema corporeo e immagine corporea” come se si trattasse dello stesso costrutto, mentre oggi sappiamo che lo schema corporeo è inconsapevole, mentre l’immagine corporea è presente alla coscienza.

Merleau-Ponty (1945), invece, oppone un “corpo-oggetto” ad un “corpo-me” assimilato al pensiero cosciente: conosciamo il nostro corpo attraverso le rappresentazioni mentali che ci facciamo di esso. Il soggetto è fatto di corpo e lo schema corporeo è un modo di esprimere che “il mio corpo è al mondo”, che funziona nel mondo come il cuore nell’organismo, e l’uomo è coscientemente in possesso dei suoi organi di cui conosce ogni posizione e orientamento. Lo stare al mondo ha una dimensione temporale: il presente è ciò che il soggetto vede (e vive) nel momento attuale, il passato è ciò che torna per confrontarsi con il presente e il futuro è la percezione di ciò che sarà.

Per questo motivo, la spiegazione dell’Autore riguardo l’arto fantasma sarebbe quella di “un vecchio presente che non si decide a diventare passato” una definizione interessante per chi desiderava una spiegazione esclusivamente psicoanalitica ai disturbi della rappresentazione corporea, ma che certamente non poteva soddisfare i neuropsicologi.

La svolta in campo neuropsicologico si ha con Critchley (1953) e la sua opera The Parietal Lobes, la prima descrizione dettagliata dei disturbi dello schema corporeo quali l’anosognosia, la negligenza spaziale unilaterale, il terzo arto fantasma.

La ricerca moderna nasce solo nel secondo dopoguerra, grazie all’utilizzo dei metodi di indagine anatomofunzionale. Le ricerche localizzarono lo schema corporeo nel lobo parietale destro e attribuirono a questa localizzazione la maggior parte dei disturbi della rappresentazione corporea.

La differenza consiste nel verificarsi, nelle lesioni emisferiche destre, di disturbi sensitivo-sensoriali e visuo-spaziali che producono una difettosa integrazione dei distretti corporei e degli stimoli provenienti dall’emisoma sinistro; invece, nelle lesioni emisferiche sinistre, i disturbi dell’orientamento corporeo sono aggravati spesso da sindromi agnosiche, per l’interessamento lesionale dei centri del linguaggio

Lo schema corporeo può essere localizzato nella corteccia parietale destra, che comprende le aree 5, 7, 39 e 40 di Broadman. Le circonvoluzioni pre e postrolandica sono caratterizzate da somatotopia, cioè a definite zone del corpo corrispondono aree specifiche della corteccia cerebrale, così come rappresentato nell’Homunculus di Penfield.

I concetti di schema corporeo e di immagine corporea condividono la possibilità di rappresentare la totalità e la complessità del corpo umano. Mentre il primo è un articolato schema percettivo legato al processo di localizzazione spaziale compiuto dal sistema nervoso, la seconda include le componenti soggettivo-cognitivo-affettive delle rappresentazioni corporee. Essendo oggettivo il primo e soggettivo il secondo costrutto, divennero, rispettivamente, interesse della neuropsicologia e della psicologia.

L’immagine corporea riguarda la situazione emotiva, i ricordi, le motivazioni e i propositi d’azione dell’individuo; non è statica, ma si modifica continuamente per merito delle esperienze personali. Approfondire questo concetto richiederebbe di abbandonare lo studio della struttura cerebrale dedicata allo schema corporeo e analizzare l’energia libidica, la relazione oggettuale madre-bambino o gli eventi emozionali che tanta importanza assumono nell’esistenza di un individuo.

Sebbene la rappresentazione del corpo sia di interesse psicologico quanto neuropsicologico, non si potranno mai discriminare i disturbi che colpiscono esclusivamente l’immagine corporea, da quelli che colpiscono lo schema corporeo. Possiamo ipotizzare un continuum dove collocare, ai due estremi, diagnosi solo psicologiche o solo neuropsicologiche e immaginare, lungo di esso, diversi casi intermedi.

Un disturbo che si colloca in posizione centrale tra quelli specifici dello schema corporeo e quelli dell’immagine corporea è il “disturbo da dismorfismo corporeo” (BDD), caratterizzato dalla preoccupazione per un difetto del proprio aspetto corporeo, della forma o di alcune caratteristiche. Pur essendo considerato un disturbo psicopatologico, perché condivide la sua neurochimica con il disturbo ossessivo-compulsivo e l’ansia sociale, ha notevoli correlazioni con i disturbi dello schema corporeo: i circuiti neuronali coinvolti con il BDD sono la corteccia occipito-temporale (per l’immagine generale del corpo) e le regioni fronto-striatale e temporale-parietale per i giudizi sulla forma e bellezza del viso.

Un altro esempio, descritto da Oliverio Ferraris (2011) tratta il caso di un bambino di 3 anni, non mancino, che improvvisamente manifesta una difficoltà nel movimento del braccio destro, che gli impedisce l’uso corretto delle posate e degli oggetti di uso comune e la produzione di un disegno disordinato e spezzettato. La remissione spontanea del disturbo avviene durante una vacanza lontano da casa, all’età di 14 anni e fa ipotizzare ai medici che lo hanno in cura che il disturbo dello schema corporeo, resistente a qualsiasi trattamento, compreso quello dello psicomotricista, si sia risolto perché il ragazzo, durante la pubertà ha chiarito i suoi contrasti inconsci con quel braccio “nemico” che da bambino aveva usato per picchiare la sorella e che la lontananza dalla famiglia l’abbia, in qualche modo, guarito e reso più indipendente dalla sua immagine corporea infantile per fargli assumere quella di un giovane proiettato nel futuro e capace di “perdonare” il suo corpo. Questo è un esempio evidente di come schema e immagine corporea siano, sebbene distinti, anche molto continui.

Possiamo adesso chiederci se la rappresentazione corporea sia innata o acquisita. Alcuni autori ipotizzavano un percorso dettato dal patrimonio genetico, secondo cui le tappe dell’acquisizione della rappresentazione corporea sono predeterminate alla nascita e lo schema corporeo è il risultato dell’interazione della genetica con l’ambiente e l’oggetto, mentre altri autori invece ipotizzavano un esclusivo intervento dell’ambiente. Al primo gruppo appartiene Piaget (1928) con le ben note fasi dello sviluppo infantile, che egli adattò per spiegare la rappresentazione corporea. Al secondo gruppo, appartengono gli psicoanalitici classici, a partire da Freud (1922), che sostiene che l’Io deriva da sensazioni corporee e il rapporto dell’individuo con il proprio corpo, che si realizza tenacemente in ogni momento, riassume in sé la propria storia, riattiva angosce e conflitti del passato che si materializzano in contesti nuovi. Winnicott (1970) con i termini holding e handling materna affermò l’importanza relazionale madre-bambino nella costruzione della membrana-frontiera che separa l’Io dal non-Io. Secondo Winnicott l’assenza o la perdita di questa membrana provocherebbe l’abolizione delle frontiere del corpo e la frantumazione dell’Io, quindi della rappresentazione corporea.

Infine Le Boulch (1975) descrisse 4 fasi di sviluppo dello schema corporeo: corpo subito, corpo vissuto, corpo percepito, corpo rappresentato.

Una minuziosa comprensione della rappresentazione del nostro corpo non è del tutto raggiunta, ma vi è ancora un lungo tratto da percorrere. Per lungo tempo, la confusione terminologica tra schema corporeo e immagine corporea non ha aiutato gli specialisti in materia di anosognosia per l’emiplegia, arto fantasma, disturbi dell’alimentazione o altre sindromi che colpiscono l’integrità della rappresentazione del corpo.

Non possiamo escludere che vi siano aree del cervello non ancora del tutto esplorate che promettono nuove e più ricche potenzialità e solo quando conosceremo il contributo di ogni più piccola area cerebrale potremo dire di possedere una completa consapevolezza corporea.

 

Inconscio affettivo e inconscio cognitivo

Il pensiero del soggetto è diretto da stutture di cui ignora l’esistenza e che pure determinano non solo ciò che è capace o incapace di “fare”, ma anche ciò che egli è “obbligato” a fare.

Tra la psicoanalisi e la cosiddetta psicologia accademica un tempo non correva buon sangue. Si ignoravano reciprocamente. Furono per primi i rappresentanti della psicologia scientifica, che hanno il vantaggio di non essere vincolati da alcuna scuola, a comprendere l’importanza di alcune ascquisizioni di fondo della psicoanalisi freudiana e a farle proprie integrandole nelle loro teorie generali sul comportamento.

L’articolo (che seguirà in sintesi) è il testo di una conferenza tenuta il 28 Dicembre 1970 al Congresso della “American Psychoanalystical Association” Esso è apparso sul Jurnal dell’associazione stessa e su Raison présente. La difficoltà incontrate per reperirlo nelle biblioteche italiane e l’interesse del suo contenuto mi sono sembrate ragioni sufficenti per richiederlo direttamente alla rivista francese e renderlo accessibile in traduzione italiana [N.d.T]

 

1. Il problema delle strutture

L’affettività è caratterizzata da composizioni energetiche, cioè da cariche psichiche capaci di investire un qualche oggetto secondo valenze positive o negative. Ciò che invece caratterizza l’aspetto cognitivo delle condotte è la loro struttura sia che si tratti di schemi elementari di azione, di operazioni concrete riguardanti la classificazione, la seriazione, ecc., o di logica delle proposizioni con le loro diverse “foncteurs” (implicazioni ecc.). Nel caso dei processi affettivi e quindi energetici, il risultao a cui conducono è solo parzialmente cosciente, si traduce cioè in sentimenti più o meno chiaramente avvertiti del soggetto come reali, affettivi, attuali. E tuttavvia il meccanismo profondo di questi processi resta inconscio nel senso che il soggetto non conosce né le ragioni dei suoi sentimenti, né la loro origine ( e quindi i loro rapporti col passato dell’individuo), né il perché della loro più o meno forte intensità, né le loro eventuali ambivalenze, e così via. E’ proprio per questo meccanismo profondo e nascosto delle composizioni energetiche che la psicoanalisi cerca di cogliere, e non stà a me ricordarvi quanto l’inconscio affettivo risulti complesso per la ricchezza dei suoi contenuti e per la complessità delle sue dinamiche interconnessioni.

Per quanto riguarda le strutture cognitive la situazione è pressoché la stessa: coscienza relativa o parziale ( ma anch’essa estremamente povera) del risultato, e incoscienza quasi totale ( o inizialmente totale) dei meccanismi profondi che tali risultati determinano. I risultati sono cioè più o meno coscienti, nel senso che il soggetto sa più o meno ciò che pensa di un dato oggetto o di un dato problema e conosce più o meno bene le proprie opinioni e le proprie credenze specie se deve formularle verbalmente per comunicarle agli altri o per opporsi a giudizi che contrastano con i suoi; ma questo “conoscere” riguarda solo i risultati del funzionamento dell’intelligenza e non il funzionamento in se stesso che gli resta del tutto sconosciuto in quanto avviene a livelli di gran lunga superiori a quelli in cui è possibile operare una riflessione sul problema delle strutture. Il pensiero del soggetto è insomma diretto da strutture di cui ignora l’esistenza e che pure determinano non solo ciò che è capace o incapace di “fare” ( da cui l’ampiezza e i limiti del suo potere di risolvere dei problemi), ma anche ciò che egli è “obbligato” a fare ( da cui gli inevitabili collegamenti logici che s’impongono al suo pensiero). In breve, la struttura cognitiva è un sistema di connessioni che l’individuo può e deve utilizzare ma che non si riduce o limita al contenuto del suo pensiero cosciente poiché a questo s’impongono certe forme piuttosto che altre, e ciò avviene secondo un succedersi di livelli di sviluppo la cui origine inconscia si può far risalire alle primitive coordinazioni nervose ed organiche. L’inconscio cognitivo consiste allora in un insieme di strutture e di funzionamenti ignorati dal soggetto eccezion fatta per i risultati. Quando Binet enunciò questa verità sotto l’apparente forma di una battuta e cioè dicendo che “Il pensiero è un’attivitàinconscia della mente”, aveva dunque i suoi buoni motivi per definirlo così. Egli voleva infatti dire che se l’io è cosciente del contenuto del suo pensiero, non sa però nulla delle ragioni strutturali e funzionali che lo costringono a pensare in questa o in quella maniera o, per dirla in altri termini, del meccanismo profondo che orienta e dirige il pensiero stesso.

Quanto vado esponendo non è una caratteristica esclusiva o tipica del pensiero infantile e si ritrova non solo nell’adulto ma nel corso di tutto lo sviluppo del pensiero scientifico. E infatti imatematici hanno ragionato da sempre obbedendo senza saperlo alle leggi di certe strutture di cui la più evidente è la struttura di un “gruppo” facilmente rintracciabile, ad esempio, negli elementi di Euclide. Di questa struttura, oggi riconosciuta da tutti come fondamentale, quei matematici non sapevano assolutamente nulla, ed è solo agli inizi del XIX secolo che Galois “prese coscienza” della sua esistenza. Allo stesso modo Aristotele, creando la logica con uno sforzo di riflessione sul suo modo di ragionare e su quello dei suoi contemporanei, “prese coscienza” di alcune fra le più semplici strutture della logica delle classi e del sillogismo. Ma- e questo è particolarmente significativo- egli non prese coscienza in quella stessa occasione di tutto un insieme di strutture che lui stesso utilizzava e che sono quelle della “logica delle relazioni”: anche questa “presa di coscienza” si è infatti realizzata nel XIX secolo con i lavori di Morgan e di altri.

Ora, se ciò si è verificato a livello del pensiero scientifico che ha fra i suoi obiettivi lo studio delle strutture, va da sé che una mancata presa di coscienza si ritroverà sotto forme ancor più sistematizzatein tutte le altre forme di pensiero, e cioè in quella “naturale” dell’adulto normale ma non specializzato in scienze e, a fortiori, in quella spontanea e sempre creativa del bambino ai diversi livelli del suo sviluppo.

Limitiamoci ad un solo esempio che riguarda il bambino: quello delle strutture di transività. Se si presentano a soggetti fra i 5 e i 6 anni due bastoncini A e B tali che A sia minore di B; poi un bastoncino B più corto di C ( B minore di C) mentre si nasconde A, questi soggetti non arrivano a dedurre la relazione A minore di C per la semplice ragione che non vedono contemporaneamente A e C. Fra i 6 e i 7 anni viene invece a costruirsi la struttura di transitività applicata poi con successo a un gran numero di problemi, siano essi di natura causale, matematica o ligica. Ma il soggetto non sa di aver costruito tale struttura e crede di aver ragionato sempre allo stesso modo; meno ancora sa riguardo a ciò che sottende la struttura stessa ( “raggruppamenti” di relazioni) né conosce come o perché essa è diventata per lui necessaria: insomma, egli ha coscienza dei risultati che ottiene ma non dei meccanismi profondi che hanno trasformato il suo pensiero, il che equivale a dire che le strutture in quanto tali restano inconscie. E’ appunto all’insieme di questi meccanismi in quanto strutture e in quanto funzionamento che diamo il nome di inconscio cognitivo.

 

“Ogniqualvolta due persone si incontrano ci sono in realtà sei persone presenti.

Per ogni uomo ce n’è uno per come egli stesso si crede,

uno per come lo vede l’altro ed uno infine per come egli è realmente»

(William James, The Principles of Psychology, 1890)

NEUROPSICOLOGIAultima modifica: 2014-01-23T02:25:02+01:00da allan11
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